Niente
ci ferma...
la riforma cappuccina
San Francesco, mettendo la sua vita al servizio di
Cristo, non ha intenzione di fondare un Ordine. Bisogna
riconoscere che non era dotato di spirito organizzativo.
A coloro che vogliono unirsi a lui, offre di rinunciare
ai loro beni in favore dei poveri e di correre con lui
la grande avventura dell’imitazione di Gesù,
fratello, crocifisso per amore. Quando il numero
dei discepoli diventa importante, egli comprende
la necessità di far riconoscere alla Chiesa il
genere di vita della sua comunità.
Compila una regola che è approvata,
una prima volta, da Papa Innocenzo III, nel 1210.
La posta in gioco è sempre Madonna Povertà,
caratteristica della vita dei "fratres
minores" (i servi della gleba).
Ai suoi "compagni" Francesco
chiede: l’assoluto distacco e la perfetta letizia,
l’abbandono totale e confidente alla Provvidenza
del Padre che "nutre gli uccelli del cielo e riveste
i gigli dei campi". Dopo Francesco,
l’Ordine ricerca una stabilità e un equilibrio
tra l’ideale primitivo e le necessità create
dal crescente numero e una formazione più intellettuale,
voluta dai Papi, per i bisogni della Chiesa.
E’ San Bonventura il centro al quale
i riformatori da sempre si riferiranno. Nascono
altri rami dello stesso albero nel XVI secolo: i
Frati Minori della vita eremitica, che realizzano
un vero ramo, esentati dal Papa, dall’obbedienza
dei Frati Minori. Essi ricevono dal popolo il soprannome
"cappuccini" per il grande
cappuccio del loro abito, che adoperano per ripararsi
dal freddo e dal gelo… Verso la fine del XVIII
secolo, l’Ordine dei Cappuccini conta 34.000
religiosi (6000 in Francia).
Agli inizi sono nettamente orientati verso la
vita contemplativa, poi, come Ordine di vita
mista, diventano apostoli per la gente.
Nel 1897 Leone XIII riunisce le diverse riforme in Ordine
dei Frati Minori Francescani. La Riforma Cappuccina
resta libera nell’imitazione di Cristo Crocifisso
e nel servizio ai più poveri e umili.
Per noi, cristiani del XX secolo,
ha senso il messaggio francescano?
Riesce Francesco ancora a dire qualcosa, per bocca nostra,
alla nostra gente, ai nostri giovani?
Siamo noi francescani capaci di decodificare
i segni che ci arrivano, di ascolto, di ricerca di dialogo
e di senso di vita?
Ad accogliere ognuno come unico, con
amicizia fraterna, senza segni di intolleranza, di incomprensione,
senza pregiudizi?
Con la pazienza e la mitezza di Cristo
crocifisso e Risorto?
Con la testimonianza di una vita essenziale, serena
nella prova e traboccante di speranza per noi e per
chi l’ha perduta?
Contemplare significa guardare chi
si ama, identificarsi a Lui, amarlo con passione, senza
chiedere nulla in cambio, con gratuità.
Pregare è parlare con amicizia
affettuosa con Cristo e fratelli che incontriamo, ogni
giorno. La povertà non è oggetto
da museo.
La povertà è uno stato di vita che ci
fa liberi, che ci rende disponibili con semplicità
a tutti, sofferenti e non, per la gioia dell’incontro.
Non si tratta di vivere nel XX secolo con gli usi del
XIII.